Marghe chi?

Qualche tempo fa, una persona che conosco relativamente poco e con la quale mi ero ritrovata a condividere una cena di amici in comune, mi guardò negli occhi, asserendo tra un boccone di bistecca e un sorso di vino rosso:

"Marghe, ma tu che fai nella vita?"

Ad onor del vero, la domanda – condita nella sua forma originale da un rafforzativo che le conferiva un tono più scurrile – viene qui riportata in una forma più neutra. Perciò, lascerò al lettore e alla lettrice la libertà di immaginare e di utilizzare qualsivoglia vocabolo per rendere suddetta domanda più “colorita”. Il punto è, per molti anni ho fatto fatica a trovare le giuste parole per rispondere a una domanda che mi è stata posta un numero di volte davvero considerevole. Oggi mi sento di paragonare quella sensazione di scomodo disagio ad un minuto di apnea, o meglio, a quella manciata di secondi che precedono la prestazione, lo sforzo fisico e mentale: tre, due, uno, giù!

Se ci penso in effetti, questa domanda, poche volte è stata gentilmente accompagnata da un preambolo che mi facesse intuire “dove stessimo andando a parare”, per capirsi. Piuttosto, è stata lanciata, senza preavviso - talvolta con noncuranza, talvolta con scetticismo - come si fa con un sasso. Presumo che molti si aspettassero che lo afferrassi al volo, con agilità e scioltezza. Invece, molte volte mi sono ritrovata a guardarlo cadere con incredulità, o a destreggiarmi in goffi tentativi di salvataggio. La risposta pronta non c’era, non c’è mai stata e non c’è neanche oggi, sebbene riesca finalmente ad ammetterlo con serenità d’animo.

Questo, tuttavia, non denota una mancanza di consapevolezza. Per citare Tolkien, “non tutti coloro che vagano sono persi”, ed io innegabilmente vago ma ho chiara la meta, o meglio, ho vagato in cerca della meta - del mio sogno - finché un giorno l’ho scorta ed oggi il mio vagare persiste perché parte egli stesso della meta. Pertanto, credo che il disagio di allora scaturisse da una duplice fonte: cercare di modellare, a parole, un obbiettivo non ancora del tutto chiaro e la spinosa questione di dover inserire nella risposta vocaboli come “pace”, o “diritti umani”. Ma perché spinosa?

“Lavorare nella costruzione della pace”, “lavorare nel campo dei diritti umani”, sono frasi che, oltre ad apparire vuote se estromesse da una più ampia chiarificazione, rischiano di non significare assolutamente nulla per un* uditore/uditrice ignar*, o, piuttosto, condurli verso preconcetti e mistificazioni (parzialmente veri) che, con fatica, mi sono trovata a cercare di decostruire nel corso degli anni. Presumo che “pace” molte volte faccia rima con parole come “volontariato”, o “precarietà”, nella mente delle persone. Un lavoro, se così si può definire, poco redditizio, una realtà non sostenibile a lungo termine: quando ti cercherai un vero lavoro?, è la domanda che, fin troppe volte, con ironia o cinismo mi è stata posta. Fa riflettere come la sua controparte, l’offerta di mercato generata dalla guerra, sia invece un business, oltre che redditizio, totalmente normalizzato nel panorama mondiale. Per cui, risulta drammaticamente più difficile spiegare in cosa consista un lavoro legato alla “costruzione della pace”, piuttosto che al business della guerra.

Drammatico è l’aggettivo che, senza indugio, mi sento di usare. Niente di cui stupirsi, direbbe qualcuno, eppure dobbiamo sforzarci di stupirci del livello di normalizzazione raggiunto dalla violenza. Della nostra interiorizzazione profonda di una “cultura della guerra” di cui siamo – drammaticamente – imbevuti. Nonostante ciò, se la cultura altro non è che “una ragnatela di significati che gli individui costruiscono[1]”, allora anche la cultura della pace, al pari della cultura della guerra, può essere seminata e coltivata e questo presuppone, similmente a qualsiasi altro lavoro, studio, apprendistati, aggiornamenti, pianificazione, monitoraggio, esperienza, passione e l’aggiunta di tutte le noiose postille di un lavoro ben strutturato.

Perciò, che faccio nella vita? LAVORO nella costruzione della pace e trasformazione dei conflitti. Ovvero? E qui, mi ricollego a quanto precedentemente esposto: chiedo venia, la risposta pronta non esiste, o per lo meno, io non ce l’ho. Sebbene possa offrire al mio interlocutore parole di circostanza, con il rischio tuttavia di risultare incomprensibile. La chiarezza della risposta dipende per lo più dalla pazienza di chi mi lancia il sasso e la sua urgenza, o meno, di riaverlo indietro. Ho imparato, con il tempo, a “passare tranquillamente tra il rumore e la fretta” e a soppesare il sasso prima di lanciarlo, combattendo talvolta con le convenzioni sociali che esigono risposte facili e immediate.

La pace, si sa, non è una formula fissa. Ogni contesto è differente - le problematiche e le sfide da affrontare pure - e questo significa che le linee guida esistenti, gli obbiettivi, le strategie, devono essere modellate in base alle circostanze, presenti e passate, al fine di essere efficaci e generare un impatto reale. Il che si traduce in: il lavoro, e conseguentemente la risposta alla domanda iniziale, cambia in base al contesto. Da qui l’idea del blog.

Negli anni - vagando - l’arte, la scrittura e la passione per la fotografia sono stati degli amici fedeli che mi hanno accompagnata ad ogni tappa. Il risultato, inaspettato, è stato ritrovarmi fra le mani un vero e proprio archivio di foto e scritti, condiviso, sporadicamente e parzialmente, con familiari e pochi intimi amici. Tuttavia, guardandolo nel suo insieme, si potrà evincere facilmente come i contenuti di questo archivio, qui riorganizzato e presentato in forma di blog, non parlano di me - almeno non direttamente - quanto piuttosto delle persone, delle loro storie, della loro sofferenza, delle loro speranze e della loro instancabile lotta per un mondo più giusto e più umano: cultura, pace, conflitto e resistenza sono quindi le parole chiave, le linee guida di questo spazio.

La costruzione della pace è indissolubilmente legata alle vittime del conflitto, i e le sopravvissute, le vecchie e nuove generazioni e la società civile, nel suo insieme globale. Perciò, i contenuti qui presenti sono anche un riflesso sia del mio percorso, che del lavoro svolto negli anni. Qui è contenuta parte della risposta, nella sua forma più intima e complessa. Qui, mi prendo il tempo di soppesare il sasso. Nel restituirlo spero non solo di offrire una risposta più tangibile e concreta alla domanda iniziale ma anche, e soprattutto, di ampliare la voce di tutt* coloro che negli anni hanno contribuito a plasmare la mia persona e il mio vagare attraverso la loro (r)esistenza. Come diceva Marie Colvin, nel documentare la guerra - e in questo caso anche i differenti processi di pace e resistenza - la vera difficoltà è avere abbastanza fiducia nell’umanità, credere che le persone si interesseranno quando la tua storia finalmente li raggiungerà.

Perciò, spero che queste storie vi raggiungano, nel senso ampio del termine, come hanno raggiunto me, che a volte le ho cercate ed altre volte sono state loro a trovare me, e che riescano a mantenere viva quella fiducia nell’umanità che non dovremmo mai perdere. Con tutti i suoi inganni, le sue ingiustizie e i suoi dolori è ancora un mondo meraviglioso e vale ancora la pena vederne il buono, credere e lottare.

Buon vagare a tutt*.

Margherita




[1] Clifford Geertz.

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