"Correte! Correte!"
Intervista 1: donna, 34 anni
J.
non trattiene le lacrime, anche io vorrei piangere ma ho un nodo in gola e
penso solo a respirare. Mi sento come se avessi trattenuto il fiato per tutta
la durata dell'intervista, sospesa, in una dimensione che ha del surreale. Ma
adesso cammino per la strada, fissando la punta delle mie scarpe consumate,
elaborando ciò che ho appena udito mentre la preghiera delle 16 si erge dalla
torre del minareto alla nostra destra.
Io, A., J. e la donna siriana ci siamo sedute sui piccoli sgabelli di una caffetteria e abbiamo ordinato tre çay. A. ha un sorriso rassicurante e appena apre il suo taccuino marrone la donna, avvolta nel suo hijab nero, comincia a narrarci la sua storia.
"Durante l'occupazione dell'ISIS noi donne non
potevamo entrare nelle caffetterie, dovevamo coprire ogni parte del nostro
corpo, anche gli occhi, e vestirci completamente di nero, nessun altro colore
era permesso. Se una di queste regole veniva infranta ci trascinavano in una
casa e ci frustavano sulla schiena.
Un giorno stavo camminando per la strada con mio marito
ma non mi ero coperta totalmente il volto, dei soldati mi hanno sequestrata e
portata dentro un edificio. Mi hanno frustata per una settimana, porto ancora i
segni sulla mia schiena. Se non fosse stato per mio marito sarei morta. Lui mi
ha salvata pagando i soldati. Così mi hanno vestita totalmente di nero, hanno
preso i soldi e sono potuta tornare a casa.
Quando le donne non potevano pagare le 50 lire siriane per
comprarsi il burka venivano picchiate. La mia vicina di casa mi ha raccontato
che la figlia di una donna che non aveva soldi per comprarlo è stata violentata
da sei uomini e poi uccisa, aveva 14 anni.
A volte i soldati volevano sposarsi e si recavano dal
padre per chiedere la mano della figlia, come se non ci fosse la guerra, come
se tutto fosse normale. Se il padre si rifiutava le opzioni erano tre: o
venivano obbligate a sposarsi, o venivano uccise oppure, se fortunate, venivano
lasciate andare. La mia figlia maggiore era già sposata a quel tempo ma le
altre due no. Dopo che mio marito è morto le obbligai a sposarsi. Non avevano
più un padre e io non sapevo come proteggere me stessa e loro.
Il giorno che mio marito morì, sette anni fa, erano le 9 del mattino e come ogni giorno gli elicotteri volavano sopra di noi mentre le bombe cadevano dal cielo come pioggia. Quel giorno morirono così tanti bambini...
Mio marito era un medico e correva da tutte le parti per
aiutare i feriti. Lui ci ha salvato. Una bomba stava per cadere vicino a noi ma
lui si è messo a gridare "Correte! Correte!". Così mi sono messa a correre
per la strada con le mie figlie ed i mie amici ma mio marito... lui non c'è l'ha
fatta. La sua testa era spaccata a metà e le viscere gli uscivano dallo stomaco
lacerato. Io e la mia figlia più piccola invece siamo state colpite ai piedi da
alcune schegge. Lei dice di ricordarsi tutto, anche se aveva solo 2 anni, e
anche oggi quando sente un rumore forte sobbalza dalla paura. Quando lo abbiamo
visto in quelle condizione siamo rimaste tutte così traumatizzate ma dopo un pò
di tempo mi sono imposta di essere forte per le mie figlie e ci siamo
trasferite in Turchia.
Ma la vita non è facile, io non posso lavorare. Io e la mia figlia più piccola siamo ospitate presso un'associazione che ci fornisce il cibo e 140 lire al mese (circa 23 euro). Viviamo in un edifico con altre persone, condividiamo il bagno e la cucina e abbiamo un copri fuco da rispettare. Sto facendo di tutto per guadagnare soldi e vedere nuovamente le mie figlie, per fare in modo che quella che vive in Libano possa venire qui in Turchia. Mentre quella che vive in Siria... suo marito non vuole lasciare il paese. Lei mi dice che una o due volte al mese una bomba cade vicino a dove vivono e io non riesco più a dormire se prima non sento la voce di mia figlia.
Tutto quello che voglio è riunire la mia famiglia, niente
di più".
Questa donna non piange, non si scompone, non si spezza. Ed io non riesco a capire se oramai non ha più lacrime da versare, o se mi trovo dinnanzi ad una forza titanica, ad una dignità inaudita. La mia tristezza mi pare tanto inappropriata che mi impongo di ricacciare indietro quelle lacrime che non mi spettano e di ingoiare l'amarezza di una realtà che non posso cambiare. Non ho niente da offrire in cambio a questo essere umano se non il mio più profondo rispetto. Ci salutiamo con un lungo abbraccio e tutto ciò che riesco a dire è solo:
Inshallah, se Dio vuole.
Che racchiude tutti i mie più sinceri auguri:
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