Giuseppe morì in guerra
Giuseppe morì in guerra.
Per la precisione, il comandante del plotone sotto cui era a servizio si svegliò una mattina dicendo: “Ragazzi! Tornate a casa, se potete. La guerra ormai è persa”.
E Giuseppe fu uno dei fortunati a cui il destino sgombrò la strada dai nemici e permise di tornare a Pontenano. Non troppo fortunato forse, c’era difatti chi cercava i disertori per riportarli a fronteggiare, chi ancora riserbava la speranza della vittoria. Fu così, che mentre Giuseppe si incamminava per la strada per andare a far l’amore con Lina, fu preso e riportato al fronte per i monti di Scandicci. Ma prima gli dissero: “Manni, va a fare colazione” e messo il mitra in mano lo portarono dinnanzi a un uomo vivo, sotterrato dalla vita in giù. Giuseppe li scrutò con i suoi occhi neri e replicò: “Fate colazione con me, io non gli sparo” e diede l’arma a chi non si sottrasse dallo sparare.
E nuovamente il comandante li rispedì tutti a casa e nuovamente Giuseppe tornò.
Il 4 luglio 1944 il fronte giunse nella cittadina di Pontenano, per poi dileguarsi alla fine di agosto. Quel giorno tutta la famiglia Manni, insieme ad altra gente del paese, si gettò nella boscaglia per accamparsi sotto una grande pietra che fungeva da capanno. E fu lì, che mentre fuggivano a perdifiato nella sterpaglia, un uomo, preso da un malanno improvviso, si accasciò. Giuseppe allora tornò subito indietro per aiutarlo mentre la madre gli urlava dietro: “Beppino! Lascialo lì!”. ll figlio si voltò e con un’espressione imperturbabile dipinta in volto rispose: “Io non ho sangue sparso per il mondo” - intendendo che non aveva figli - “se posso aiutare qualcuno lo farò”. E preso in spalla l’uomo lo portò in salvo al rifugio. Nessuno lo ringraziò e lui non si lamentò di questo.
I tedeschi nel frattempo lanciarono dalla finestra tutto quello che trovarono nella casa dei Manni e presa la paglia dal fienile la sparsero per tutta la casa dandogli fuoco. Alla fine del giorno ne rimasero in piedi solo le quattro mura.
La mattina del 9 luglio, Giuseppe e Gino Olinti, marito di una delle sorelle, si avviarono in paese a cercare della farina ma prima Giuseppe volle fermarsi alla casa bruciata, dove per dimenticanza vi lasciò il borsello e la carta di identità, che in seguito furono trovati dai fascisti. Mentre i due perlustravano il paese in cerca di cibo, da una casa proruppero dei rumori. Non sapendo se si trattasse di inglesi, tedeschi o fascisti, i due si precipitarono nella boscaglia dove incontrarono Raffaello Gianerini e Gino Pennati che non vedevano le famiglie da ormai tre giorni. I due supplicarono Giuseppe di accompagnarli in paese. Inizialmente il giovane rispose: “Nemmeno morto!”, per poi cedere alle suppliche.
Dietro la curva i fascisti li catturarono tutti e tre e li misero sugli attenti.
“Di che classe sei Giuseppe?” [di che anno sei?]
“Del ventisette”.
E tirata fuori la sua carte d’identità, che non era del fascio, gli risposero:
“No, sei del ventuno”. L’anno in cui bisognava prestare servizio.
Quella stessa notte, racconta mia nonna, la mamma cacciò un urlo: “C’hanno ammazzato i’citto [ragazzo] Roberto!”. Aveva difatti sognato Giuseppe mentre, mostrando i palmi delle mani forate da colpi di proiettile, le diceva: “Guarda come mi hanno ridotto mamma!”
Ma nessuno dette credito a un sogno e si rimisero a dormire.
Il giorno seguente, alle dieci del mattino, Giuseppe Manni fu ritrovato morto senza l’anello, la collana d’oro e i lacci delle scarpe. Le mani forate de sette colpi di fucile mentre, presumibilmente, cercava di coprirsi il volto nel momento dell’esecuzione.
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