Vorrei andare in guerra
Vorrei andare in guerra.
Ci credo davvero quando lo dico? Sì, ci credo davvero. Tuttavia, le mie parole si velano di una silenziosa vergogna quando espresse ad alta voce dinnanzi a terzi. Non provo vergogna per quello che desidero, piuttosto è forse il giudizio, mai manifesto, di chi mi ascolta che mi induce a ridurre tale pensiero quasi ad un sussurro. Come se tale “aspirazione”, che non mi azzardo a chiamare sogno, fosse un qualcosa di infantile, che sarebbe dovuto svanire con il trascorrere del tempo. Invece è lì, plasmatosi e manifestatosi negli ultimi anni, sempre più forte, sempre più impellente. Un’esigenza, una voce, un richiamo.
Credo, o forse temo, che questo sia il frutto di un’interiorizzazione profonda dell’educazione e dell’esperienza antropologica sperimentata in Argentina: vivere per capire.
Esiste una linea che va al di là dell’empatia, che ho coscientemente attraversato, ponendomi di proposito in quelle realtà che, altrimenti, non avrei mai avuto l’occasione di esplorare. Così mi sono recata là dove gli spiriti degli orixás discendono, attraverso le spirali disegnate da gonne rotanti, nei corpi dei fedeli ebbri di alcool. Ho condiviso l’'ifṭār seduta nei tappeti dei salotti di case sconosciute. Sempre disposta ad entrare, là dove mi venga aperta una porta. Ho conosciuto molte divinità e creduto in tutte. Ho decostruito tutte le mie certezze con l’aiuto di chi certezze non ha. Sono stata travolta dalla forza di quei corpi, celati in nere vesti, i cui occhi sono rimasti ostinatamente asciutti ripercorrendo la memoria di mali inimmaginabili, mentre io sono crollata alla seconda parola udita.
E adesso sono qui, tra paramilitari e guerriglieri, comunità indigene e di afro-discendenti, campi minati, fosse comuni e cammini ancestrali. Immagini di ordinaria miseria e decadenza scorrono veloci dal finestrino di un bus, mentre bambini scalzi giocano con cani randagi ridotti a pelle e ossa. Sui muri delle case e delle botteghe la scritta “AGC presente” (Autodefensa Gaitanista de Colombia) proietta un’ombra che striscia come nero catrame nei vicoli dei villaggi, riducendo la popolazione al silenzio e ampliando una tensione palpabile a pelle. Il conflitto in Colombia si nasconde sotto un mantello che le tende una presunta democrazia, che tutti conoscono ma che nessuno ha mai incontrato, rifocillato e mantenuto ben al caldo dalle mani di impresari e avidi politici. Così i giovani spariscono sui monti e i loro corpi riaffiorano nei fiumi le settimane seguenti, irriconoscibili e gonfi d’acqua; gli indigeni assassinati vengono deposti in rudimentali bare di legno e coperti da bianchi sudari che ne oscurano i fori di proiettile; le mine mutilano e dilaniano indiscriminatamente donne e bambini; le pallottole di gomma, sparate per “disperdere” le folle, cavano gli occhi alla prima linea di chi marcia rivendicando diritti; il governo riconosce e si scusa per i 6.402 “falsi positivi”, civili uccisi dalle forze armate e spacciati per guerriglieri per migliorare le statistiche del conflitto; gli elicotteri dell’esercito volano bassi su un orizzonte che si tinge di rosso mentre gli accordi di pace non sono che una firma su un pezzo di carta riposto in un cassetto ed ora ricoperto da una coltre di grigia polvere. Cammino per le strade di Bogotà dove la gente sorseggia caffè o aguapanela in bar ricercati ornati da piante rampicanti, dove io mi siedo in ristoranti orientali dai costosi prodotti importati. Eppure anche nella capitale si cammina sullo sterno dei morti. La Colombia, come disse un amico, non è che un immenso campo santo privo di recinzioni e là dove si scava salta sempre fuori un resto umano.
Mi domando se sono un’incosciente e la risposta non può essere che sì, lo sono. Mi sento come Týr che offre in pegno il braccio al lupo Fenrir, con il solo scopo di avvicinarlo abbastanza da poterlo incatenare, per poi perdere l’arto, sbranato dalle fauci dell'animale. La mia incoscienza presumo scaturisca dall’ignorare cosa sto offrendo in pegno per vedere il lupo da vicino, ben consapevole tuttavia che guardare il male negli occhi, toccarlo con mano, implica pagare un prezzo, o perdere un pezzo. Forse ci sto rimettendo in salute mentale, o forse no, ma non mi importa e sto volutamente ignorando il pegno, purché questo mi permetta non tanto di vedere quanto piuttosto di comprendere. E’ follia, o coraggio? La risposta mi è chiarissima, appresa ormai da tempo e cimentatasi nella mia persona: non c’è coraggio senza follia, e non c’è follia senza coraggio. E ne ritrovo conferma ogni giorno, specialmente nelle pagine dei libri di coloro che hanno pagato un prezzo altissimo ritrovandosi, loro malgrado o consciamente, ad affrontare situazioni dove il faccia a faccia con una realtà brutale li ha spinti a compiere azioni di cui non pensavano di essere capaci, nel bene e nel male. Erich Maria Remarque, offertosi come volontario nella prima guerra mondiale, scriveva che “l’eroismo comincia dove la ragione si mette in sciopero: disprezzando la vita. Ha a che fare con la follia, il rischio, la sbornia” e con l’adrenalina, aggiungerei. Il pericolo in fondo, là dove ricercato, è esso stesso una droga. Tuttavia, una domanda mi sorge spontanea: disprezzo forse io la vita? No, non la disprezzo, ma so anche che non mi importerebbe poi tanto di perderla facendo ciò che amo, vivendo con un proposito.
Un’amica, che condivide con me la realtà quotidiana del conflitto colombiano, mi guarda perplessa dopo aver ascoltato il flusso del mio delirante ragionamento ed esclama: ma Marghe, un attivista morto non serve a niente.
Queste parole mi colpiscono nel profondo, perché le condivido, e realizzo che ciò di cui parlo suona più come un martirio: il sacrificio della vita in nome di una fede. Voglio quindi vivere, o voglio vivere per morire? Mi torna in mente la copertina di un libro, letto tempo fa, rosso fiammeggiante con una foto del Che e un titolo scritto a grandi lettere cubitali nere, “Il rivoluzionario vero è il rivoluzionario morto”, il che mi trova d’accordo, in parte. Cosa voglio essere? Un’attivista, una martire, una rivoluzionaria? Voglio davvero, sento la necessità di delimitare la mia intera esistenza all’interno di un concetto? Sto sprofondando nella contraddizione.
Raccolgo i pensieri e mi soffermo, soppeso le parole, raccolgo la matassa, ordino il filo, cerco la via di fuga. E’ innegabile che adoperarsi per gli altri presuppone un rischio in certe zone del mondo, ma è anche vero che mi sto volutamente recando là dove questo rischio esiste. E questo mi conduce al ragionamento iniziale: vivere per capire. Semplicemente io, personalmente, non posso adoperarmi per gli altri senza mettermi nei panni degli altri. Il che per me equivale a vivere là e nella loro stessa realtà.
Il cerchio si chiude.
La chiara consapevolezza che la guerra sia “brutta e infame” davvero non mi basta più.
Verrà il tempo di oltrepassare la linea.
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