Primi sguardi


Sri Lanka.

L’aria è calda e asfissiante. La stagione del monsone di sud-ovest è appena cominciata e la pioggia si riversa abbondante su tutta la costa occidentale, dove si colloca anche la capitale: Colombo.

I tuktuk, onnipresenti veicoli in Sri Lanka, sfrecciano per le strade, destreggiandosi in una giungla senza regole in cui l’imperativo è muoversi. Chiedo se l’importo che devo pagare, che corrisponde circa a 300 rupie (1 euro), è corretto. L’autista mi sorride dondolando la testa in un gesto che mi confonde: è un sì, oppure un no? Imparerò presto che questo gesto denota una pigra affermazione nel linguaggio corporale dell’isola. Bohoma sthuthi rispondo - grazie - e il suo sorriso si allarga ancora di più, ma è solo un attimo, prima di sfrecciare nuovamente nel caotico traffico di Colombo.

Sono le 4:30 del mattino e mi sto dirigendo a Galgamuwa con i miei colleghi. Sono elettrizzata, si tratta del mio primo “assaggio” del lavoro in terreno. Prima di dirigerci nell’entroterra, attraversiamo la cittadina di Negombo, dove la presenza della comunità cristiana è inequivocabile, grazie alle numerose statue di santi appostate ad ogni angolo della strada.

Man mano che ci allontaniamo dalla costa con il nostro van, il paesaggio si apre in una distesa verde e rigogliosa di palme, piantagioni di riso e le tipiche stupa, le cupole bianche che contraddistinguono i templi buddisti. Passiamo davanti a una grande statua del Budda, il cui languido sguardo ci segue, attraverso gli occhi semichiusi fissati in uno stato di meditazione perenne.


Lungo il tragitto ci fermiamo per la prima, la seconda e la terza colazione. Tè zuccherato;
badairingu, pannocchie stufate; idiyappa, sottili spaghetti di farina di riso serviti con sambal - un condimento crudo a base di cocco grattugiato - e dhal, fagioli speziati. Tutto si mangia con le mani, riso al curry compreso. I miei colleghi mi offrono un cucchiaio che rifiuto orgogliosamente e in modo istintivo. Mentre loro sono abilissimi e navigati, io cerco di imitarne la tecnica osservandoli con la coda dell’occhio ma la mia è solo una pallida imitazione e mentre mangio – o tento di farlo – spero solo che nessuno si accorga dei miei pietosi e sgraziati tentativi. In pochi minuti la mia bocca si tramuta in un girone dell’inferno e ho bisogno di uno yogurt bianco per acquietare la sensazione di bruciore.


Chiedo a R. di cosa tratterà il training di oggi. Una comunità di contadini della zona ci sta difatti aspettando. “Il valore del networking, delle relazioni umane come strategia effettiva per risolvere problemi comuni" - mi risponde - "il capitale non sono solo i soldi, il capitale è anche sociale”. Sorrido, pensando e soppesando il valore di queste parole.

Lo Sri Lanka è una piccola isola verde che tra il 1983 e il 2009 è stata dilaniata da una sanguinosa guerra civile. In questa era di “post-conflitto”, ricostruire la collettività è una sfida, soprattutto in un contesto dove si parlano ufficialmente tre lingue (sinhala, tamil e inglese), si professano quattro religioni (Buddismo, Induismo, Islam e Cristianesimo) e dove la società è multietnica (i cingalesi, che costituiscono circa il 75% della popolazione, la minoranza tamil, 20% circa, e il restante 5% costituito da altre minoranze). Ricostruire la fiducia e la cooperazione ma soprattutto la riconciliazione della società civile è quindi essenziale per prevenire il conflitto e garantire una pace sostenibile.

Nella sala conferenze l’aria condizionata sibila, creando un’oasi di frescura dalla calura tropicale. Ci sono circa una trentina di persone di differenti età e una maggioranza preponderante di donne dagli abiti sgargianti e i volti scavati dal sole. Mi osservano con curiosità ed io ricambio il sentimento. M., un giovane dal volto rotondo, è il mio entusiasta interprete, dal momento che tutto il training verrà condotto in cingalese e il mio vocabolario si riduce ancora a poche frasi che ripeto come un mantra: mage nama Margherita, mage rata Italia, mama chutak sinhala katakaranava (il mio nome è Margherita, vengo dall'Italia, parlo un po' di cingalese).

Durante il workshop vengono poste delle domande relative alla difficoltà di coltivare la collettività dinanzi fattori esterni che possono insinuarsi nel gruppo alimentando così divisioni interne: come riconoscere tali fattori? Come prevenirli? Come contrastare le divisioni che minano la forza della collettività? Durante il training i partecipanti vengono riuniti in piccoli gruppi, dove il dibattito si accende ed i pensieri vengono poi ordinati per iscritto in grandi fogli di carta, prima di passare alla discussione generale.

Seguo il training con interesse, prendendo familiarità con nuovi concetti e problematiche odierne che affliggono lo Sri Lanka, di cui non aveva sentito parlare in precedenza. Con l’aiuto di M., che si premura di fornirmi delucidazioni tra una pausa e l’altra, appunto nel telefono parole che mi aiutino a ricordare tematiche che vorrei approfondire in futuro, essenziali per comprendere il contesto in cui mi trovo. Come per esempio, il così detto “conflitto uomo-elefante”, ovvero il grave problema di convivenza tra umani ed elefanti che affligge molte zone rurali dell’isola e del continente sud-est asiatico.

Alla fine della giornata sono esausta, la costante traduzione e l’immagazzinamento preliminare di nuove parole, concetti e tematiche, con cui devo ancora familiarizzare, mi ha debilitato. Però sono felice ed entusiasta, dopo tutto si tratta solo dell’inizio. Prima di risalire sul nostro van, salutiamo i partecipanti congiungendo le mani nel tipico saluto buddista: ayubowan, lunga vita. Le strade di campagna nelle quali ci addentriamo, per lo più prive di illuminazione, sono deserte e oscure. Dal finestrino riesco a scorgere solo i profili delle alte palme ai margini della strada. Lungo il tragitto ci fermiamo per il tè, estremamente zuccherato, che ci viene servito con il tipico hopper, una sorta di pancake a forma di scodella, che può essere consumato dolce o salato.

Mi rendo conto che ci stiamo avvicinando alla città solo dalle prime luci che cominciano ad apparire in lontananza e dal profilo degli alti hotel che proliferano sulla costa e vicino al porto. Stiamo tornando a Colombo, verso “casa”, il luogo dove mi ha condotto la vita e dove rimarrò, tentando di coltivare la collettività, nei prossimi anni a venire.




 

 

 




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